Categorie: Libri e letteratura

L’amore di Dio nel corpo di un poeta

Il Notturno (1955) di Clemente Rebora
La premiazione del Premio Vincenzo Scarpellino 2024

«Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini». Lo scriveva Benedetto Croce e lo citava Fabrizio De André. 

Io non sono poeta, né figlio di poeta, ma questo non esclude che sia cretino. D’altronde, una possibile etimologia di “cretino” è la sua derivazione dal francese chrétien, «cristiano»: ci rientro a pieno. Così, come un cretino, cerco un senso negli avvenimenti, mi ostino – quand’anche fosse un’illusione – a vedere nell’uomo profondità inspiegabili agli occhi degli intelligenti. Amo la poesia perché ha la capacità di concentrare intensità d’emozione e slancio della mente in sillabe ritmiche, dal suono ricercato.

La vera poesia penetra «fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla» (Ebrei 4,12): la frase si riferiva alla parola di Dio, ma il surrogato umano più vicino ad essa è la poesia. Quando la poesia è resa infuocata dall’amore di Dio, essa risulta penetrante e consolatoria in modo inaspettato. È stato così leggere Notturno di Clemente Rebora: penetrante e consolatorio.

Quando si soffre e si soffre davvero, sbucano i consolatori di professione, attratti dal poter fare da maestri: dall’amico empatico al prete teologo, entrambi – dicono – conoscono bene il tuo dolore. Ci vuole pazienza per tacere perché, se rispondi, per loro è solo che no, non hai capito, sei ancora chiuso; se li ascolti, invece, vedrai la luce. Alcuni promettono addirittura guarigione immediata. I preti poi si sentono di dover difendere Dio, come se non conoscessero il libro di Giobbe, dove Dio disprezza chi lo difende e chiama suo amico chi lo ha sfidato chiamandolo in causa.

I professionisti del sacro fanno di Dio una fredda teoria che riempia ogni casella: lineare, razionale, semplice nella sua inesorabilità. La sfida di Giobbe a Dio è al contrario un parlare a un Dio reale, che ascolta, che appare contradditorio, ma, in fondo, tra intimi, il litigio fa parte dell’amore.

Leggo un libro di filosofia e alla fine, annoiato, mi concedo un po’ di poesia, ed è lì che alla fine lo trovo: il mio Dio, quello che vivo e conosco! Clemente Rebora mi è compagno nella mente, e come desidererei essergli compagno anche nel cuore! Proviene da una famiglia mazziniana, legge Nietzsche, è invasato dalla passione per Wagner; diventa amico e collaboratore di Prezzolini e Papini, è voce del pensiero laico nella rivista «La Voce».

La prima guerra mondiale gli dà gloria militare e una scheggia di un proiettile d’obice alla tempia, con un susseguirsi di ospedali e manicomi. Nel 1931, convertito, entra in convento È l’approdo a un’intelligenza che finalmente ama.

Dio è per noi «un fastello di contraddizioni», scrive Anna Frank, e fra le tante molti si stupiscono – ed è anche giusto – che entri nella nostra vita, che viva in noi e con noi. Questo di certo lo espone ai nostri alti e bassi, a occuparsi delle quisquilie della nostra quotidianità. È molto diverso dal Dio dei filosofi, ma fa cose che, a pensarci, ti potresti ben aspettare da un Dio che è amore e che vuole essere amato.

Dio si lascia coinvolgere per essere amato: chi amerebbe qualcuno, infatti, che non possa essere ferito? chi amerebbe qualcuno che non possa rendere felice? Gesù ci ama con cuore di uomo e l’amore è un continuo alternarsi di accoglienza e dono: le sistole e diastole della nostra anima. Questa è la vita di tutti ed è la vita di Dio in noi. Il cristiano lo sa bene, il suo è un Dio incarnato.

Un po’ più difficili da accogliere sono le Beatitudini evangeliche: per accettare di essere limitati, bisognosi di Dio, ci vuole tanta umiltà. Ogni beatitudine si radica in una mancanza e ha sbocco nell’avvicinarsi di Dio, «fonte di ogni bene», attratto dalla nostra piccolezza. «Beati i poveri… beati gli afflitti… perché vedranno Dio»: maggiore la mancanza, maggiore è lo spazio che Dio può ritagliarsi nella nostra vita. Senza Dio possiamo forse provare l’effetto inebriante ed effimero del piacere, ma non certo l’inalterabile gioia dei santi.

Con Dio si piange, ma si prova anche gioia profonda. Dio è sia nella gioia sia nel pianto, provoca uno e suscita l’altro.

In fondo, si piange perché ci manca Dio in pienezza, ma già lo si sente presente. Rebora questo lo ha vissuto nella sua perfetta obbedienza di monaco, rinunciando alla sua cultura, tanto da passare per un umile e semplice anziano, dalla parlata comune, infuocato forse di Dio, ma povero di conoscenza ed esperienza: un cretino, un vero cristiano. Vivere le Beatitudini è già santità, ma questo ancora non mi sconcerta più di tanto, penso di riuscire a intuirne il senso.

Durante l’ultima malattia la poesia di Rebora canta infine melodie nuove. Nei Canti dell’infermità piange e canta, ma il suo pianto è diverso da quello delle Beatitudini: lì se ne sentiva la mancanza, qui di Dio se ne ha sin troppo.

Il corpo e l’anima provano lo strazio di un amore così grande da essere incontenibile, il fuoco di un abbraccio troppo veemente per poterne sfuggire. Non c’è gioia, ma ne scaturisce un canto che è  giubilo senza parole, perché non ha esperienze analoghe da cui trarre qualche immagine descrittiva.

Rebora parla di corpo che si disfa, di dolori senza consolazioni, di un morire che non muore mai; si limita a raccontare gli urli della natura umana, l’atrocità della sofferenza fisica e mentale, la tentazione di sentirsi abbandonato.

Non è una sofferenza propria della natura umana; un tale bruciare di amore non ci appartiene, non abbiamo forza sufficiente per accettare di vivere in un inferno da cui non vorresti però mai uscire, perché delizia mentre ferisce. Questi sono i dolori di Gesù in un’anima che si va facendo simile a lui.

Che Dio prenda su di sé i nostri dolori è certo segno di amore, ma è niente rispetto a questa esperienza a cui non sappiamo dare un nome: come chiamare quell’impulso che spinge Dio a trasformare un’umile creatura in un essere «partecipe della natura divina» (2Pietro 1,4) e compagno della sua vita? Essere collaboratori della sua redenzione, amare con la sua stessa intensità (per quanto a noi possibile), soffrire per l’odio e il distacco del mondo come lui lo soffre (per quanto a noi  possibile), e lasciare che Dio accresca sempre di più le nostre capacità:  chiamarlo “amore” può essere poco.

Noi tradiamo Dio con incredibile irriconoscenza per seguire passioni sregolate e squallidi piaceri; come potremmo farci perdonare se non amandolo senza alcun piacere, per puro amore? E nonostante le nostre colpe, Dio continua a desiderarci come suoi veri figli: come poterlo essere senza imparare dal Figlio suo, che ama chi non se lo merita, chi lo tradisce e lo odia senza ragione? E infine, Dio vuole renderci capaci di sostenere la gioia del paradiso per l’eternità: come poterlo fare senza che Dio abbia straziato il nostro cuore per renderlo più grande e forte? Sono sofferenze diverse, tutte necessarie alla beatitudine che ci attende, ma la più dolorosa e beatificante è l’ultima, fatta di fiamme che incendiano il cuore di amore soprannaturale.

Questo dolore e questo fervore divino sono cessati per sempre nel 1957 per Rebora, ma l’eco del modo in cui sono stati vissuti è rimasta nella sua poesia. Altri di sicuro sono stati più santi di lui, ma ben pochi sono riusciti meglio a rilevare gli effetti del sangue di Gesù – segno del suo amore sofferente – sul corpo e l’anima di un essere umano.

Notturno

Il sangue ferve per Gesù che affuoca.
Bruciamo! dico: e la parola è vuota.
Salvami tutto crocifisso (grido)
insanguinato di Te! Ma chiodo al muro,
in fisiche miserie io son confitto.
La grazia di patir, morire oscuro,
polverizzato nell’amor di Cristo:
far da concime sotto la sua Vigna,
pavimento sul qual si passa, e scorda,
pedaliera premuta onde profonda
sai fa voce dell’organo nel tempio –
e risultare infine inutil servo:
questo, Gesù, da me volesti; e vano
promisi, se poi le anime allontano.
Bello è l’offrir, quale il fiorire al fiore;
ma dal sognato vien diverso il fatto.
Padre, Padre che ancor quaggiù mi tieni,
fa che in me l’Ecce non si perda o scemi!
A non poter morire intanto muoio.
Il sangue brucia: Gesù mette fuoco;
se non giunge all’ardor, solo è bruciore.
Maria invoco, che del Fuoco è Fiamma;
pietosa in volto, sembra dica ferma: –
Penitenza, figliolo, penitenza:
prega in preghiera che non veda effetto:
offriti sempre, anche se invan l’offerta;
e mentre stai senza sorte certa,
umiliato, e come maledetto,
Dio in misericordia ti conferma.


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