La vita “normale” del carnefice di Auschwitz e della sua famiglia

Ovvero la banalità del male. Un libro e un film

«Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male»
Hannah Arendt, “La Banalità del Male. Eichmann a Gerusalemme” (Feltrinelli, Milano, 2016)

Di solito scrivo di libri e lo farò anche stavolta in queste prime righe, anche se il soggetto vero di questa Nota è un film. Del libro, da cui il film è liberamente ispirato (“La Zona d’interesse” di Martin Aims, Einaudi, 2015) avevo scritto diversi anni fa, dopo la pubblicazione in Italia del libro dello scrittore, saggista e sceneggiatore britannico.

Il libro è stato, per Aims, il coronamento di anni di ricerche, pur non trattandosi di un Saggio Storico, ma di un Romanzo. Eppure, il suo lavoro ha faticato ad arrivare in Libreria, perché Gallimard, in Francia e Hanser Verlag, in Germania si sono rifiutati di pubblicarlo, malgrado l’accuratissima ricostruzione storica e la decisione dell’Autore di evocare, senza mai menzionarli, tutti i personaggi di spicco di quella Storia che si svolgeva in una località che gli artefici della “banalità del male” di cui avete letto all’inizio, hanno reso tristemente “famosa”: Auschwitz (Oswiecim in polacco). E questo “incidente” culturale la dice lunga sul rapporto che il mondo occidentale, cosiddetto civile e democratico, ha, ancora oggi, con il nazismo ed il fascismo.

Bene. Anche il film di cui vi propongo qui la visione: “La Zona D’Interesse”, del regista britannico Jonathan Glazer (nelle Sale italiane dal 22 Febbraio) – insignito del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes. Edizione 76, del 2023 (più o meno in quelle stesse ore, del mese di Maggio moriva Aims) dove gareggiava in concorso, candidato a 5 Premi Oscar 2024 e presentato in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Best Of – ha richiesto al regista e sceneggiatore due anni di lettura approfondita del Romanzo di Aims e numerose ricerche documentarie, oltre ad una visita al KL di Auschwitz.

Dunque, il film. C’è una grande villa con piscina piena di fiori e piante meravigliose. C’è una famiglia tedesca benestante, con la servitù, gli amici, i figli che si divertono. Ci sono le gite in barca, i tè della domenica e c’è un viavai di gioielli e pellicce. Sembra il racconto di un’ordinaria quotidianità di persone, come ho scritto, benestanti, che magari occupano i primi posti del ranking sociale del tempo, ma così non è. Intanto, non siamo in Germania, ma in Polonia. Intanto c’è la guerra (la seconda mondiale dall’inizio del ‘900) e poi ci sono ancora un lungo muro di cinta e un odore dolciastro che pervade l’aria. Il muro è quello che divide la villa dal Campo di concentramento e sterminio di Auschwitz (lo si capisce dalla torretta di guardia che svetta oltre il muro) e l’odore dolciastro è quello, inconfondibile, della carne umana bruciata nei forni crematori, modello brevettato della J.A. Topf und Söhne (“Topf e Figli”), ovvero il meglio che si potesse avere all’epoca. Dunque, quella della prima scena del film non è una villa come le altre, bensì una “camera con vista” sull’orrore, è la “zona d’interesse” abitata da un “gruppo di famiglia per un interno”, assai vicina all’Inferno.

Così, all’inizio del film di Glazer facciamo la conoscenza di questa  “zona d’interesse” e dei suoi abitanti e l’inizio – lo vedrete – non è affatto rassicurante. Ma l’accostamento tra la brutalità e la banalità del male (lo stesso identico) voluto dl regista ha uno scopo, quello di farci capire, fin da subito, che quello di Glazer non è il solito film sulla Shoah: non è lo Schindler’s List , di Spielberg e non è nemmeno Il Figlio di Saul, dell’ungherese Lazlo Nemes. È un’altra cosa. Meglio, è la stessa cosa, ma vista da un’altra prospettiva, quella dei carnefici.

Infatti, mentre nei due Film citati l’orrore è dentro il Campo di sterminio, nel film di Glazer l’orrore è fuori di esso e se non fosse per quel muro, quella torretta di guardia e quell’odore (oltre al rumore di fondo che si snoda per tutto il film, frutto dell’’effetto speciale’ che il regista ha registrato per le strade odierne e infilato nel film) la vita nella villa – per il Comandante Rudolph Höss, la moglie Hedwig e i figli – sarebbe idilliaca: cosa desiderare, infatti, di più e di meglio, dato che fuori di quella “zona d’interesse” c’è una guerra?

Ripeto, nel film di Glazer la prospettiva di approccio alla storia è ribaltata, ma l’artificio serve a far capire a chi guarda il contrasto tra le due personalità del Comandante del Campo: fuori marito e padre premuroso, attento al benessere della moglie, dei figli (e del cane); dentro carnefice spietato e travet infaticabile della “Soluzione Finale”. Un banale “manager dello sterminio” assai risoluto, e felice di servire così la Heimat (la Patria tedesca) ed il suo fuhrer.

Se si vuole cercare un paragone, basterà riandare alla gabbia di vetro antiproiettile del Processo Eichmann del 1961 e al suo inquilino provvisorio che guardava, stupefatto, i testimoni delle sue malefatte (che avrebbero dovuto essere tutti morti e la cui esistenza in vita testimoniava, invece, del suo fallimento, diciamo così, “professionale”) e rigirava nervosamente tra le mani i suoi occhiali neri, ancora non capacitandosi di come fosse finito in quella gabbia, davanti agli odiati ebrei, nonostante la “perfezione” del suoi piano di  mimetizzazione tra gli umani e nonostante per anni avesse fatto solo il suo dovere di buon tedesco nazionalsocialista: un  impiegato modello a cui, certo, il Comandante Höss si sarà riferito durante il suo “duro” lavoro dentro il Campo dell’orrore.

Rudolph Höss, il protagonista del film, non è un mostro, o meglio chiaramente lo è, ma non sembra esserlo, dato il suo animo apparentemente sensibile. Lui, si occupa della famiglia. Lui, Indossa la divisa delle SS come fosse lo strumento di una missione e per la sua efficacia nell’azione di sterminio degli “indegni di vivere” viene addirittura promosso. Sarà infatti lui a coordinare la maxi operazione di eliminazione o costrizione al lavoro nei Campi di sterminio di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi, su ordine di Himmler e Hitler. Sarà “felice come un bambino” per questa promozione, telefonerà commosso alla moglie, e durante una festa starà persino lì a pensare come poter “gassare” meglio i deportati avendo a che fare con un soffitto alto.

L’ho scritto, questo Film non è rassicurante anzi è volutamente disturbante e – scrive Claudia Catalli su Wired – “Glazer non restituisce il ritratto di un carnefice visionario esaltato, ma la crudezza di un uomo comune e medio(cre), un funzionario che cerca di adempiere agli ordini nel modo migliore possibile e intanto pensa alla casa, al bene per i propri figli, alla sua carriera. Un contrasto perenne, talmente stridente da far venire conati di vomito. Verranno anche al protagonista, verso il finale, ma non saranno segno di senso di colpa. Anche il passaggio all’oggi è scioccante, la cinepresa entra ad Auschwitz e mostra le pulizie prima dell’ingresso dei visitatori. C’è chi spazza per terra accanto ai forni crematori, chi pulisce le vetrate che mostrano centinaia di valigie, scarpe, stampelle. E poi le foto di chi quel campo lo ha attraversato davvero, mentre fuori famiglie come quella di Höss gioivano delle nuove pellicce arrivate. Imbarazzo, dolore, schifo: se vi provoca sensazioni simili il nuovo film di Glazer, discutibile e per questo da vedere, ha colpito nel segno.”

Condivido quanto scrive la Catalli, ma aggiungo alla vostra riflessione quanto segue: per me, scegliendo di raccontare gli aguzzini e non le loro vittime Glazer fa una scelta di campo che riguarda l’oggi, ragionando sulla banalità del male attraverso un identikit in cui il paradosso della famiglia tedesca, incurante dell’abominio che “vive” oltre quel muro di cinta, moltiplica all’ennesima potenza quello dell’Occidente nei confronti delle guerre che del tutto o in parte ha contribuito ad accendere.

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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