Memoria gialla: Roma, il delitto della porta chiusa

Ovvero il "Caso Fenaroli", 10 Settembre 1958, la prima volta della Repubblica in cui politica e Servizi andarono a braccetto

“Non vedeva lontano perché si ostinava a voler guardare le cose troppo da vicino.”. “[…]”

(Edgar Allan Poe, “I Delitti della Rue Morgue”, 1841).

 

“Enrico De Grossi, ex alto ufficiale del Sifar, avvia nel 1968 una contro-indagine privata sull’assassinio di una donna Maria Martirano, strangolata 10 anni prima. Di quel delitto, noto come “delitto Fenaroli”, erano stati accusati e condannati il marito dell’uccisa, Giovanni Fenaroli, e un giovane milanese, Raoul Ghiani, ritenuti il mandante e il killer di un omicidio organizzato per riscuotere il premio di un’assicurazione sulla vita. De Grossi si convince invece che c’è stata una losca storia di fondi neri maturata nell’Italia politico-affaristica di quegli anni e scrive un libro-dossier che però non divulga. Dopo 25 anni, scrive a Padellaro che, approfondendo il caso, scopre che anche altri avevano seguito la stessa pista arrivando alle stesse conclusioni” (da: “Non aprite agli assassini, il Caso Fenaroli e i Misteri Italiani”, di Antonio Padellaro, Baldini e Castoldi, 1997)

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“Non si fanno più i delitti di una volta”, scrive Fabio Sanvitale in un pezzo che rievoca uno dei casi di cronaca nera più intricati del ‘900, il cosiddetto “Caso Fenaroli” sul quale Sanvitale ha scritto, con Armando Palmegiani, “Omicidio a Piazza Bologna, una storia di sicari, mandanti e servizi segreti“ (Armando Editore, 2021).

Quel delitto – un classico delitto “della camera chiusa”, degno del miglior Edgar Allan Poe – risale al Settembre del 1958, anche se la verità giudiziaria arriverà solo tre anni dopo ed esattamente nel Giugno del 1961. Ma quel delitto ha un’altra particolarità: si tratta, infatti, del primo caso nel quale un delitto – ovvero l’uccisione di una donna, Maria Martirano in Fenaroli – si mischia, meglio è la diretta conseguenza, di un “Affare” politico assai delicato, intricato e maleodorante che vede la luce in quell’anno (il 1958) di nascente boom economico e che ha come protagonisti un costruttore edile, piccolo ma ambizioso oltre misura, un politico democristiano dell’epoca. L’Italcasse (Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane), Istituto bancario all’epoca diretto dal politico democristiano e Banchiere Giuseppe Arcaini e  – ma solo di  striscio, si capisce  e con tutti i verbi al tempo condizionale – l’allora Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. Ma anche i Servizi Segreti della dodicenne Repubblica Italiana, ovvero il SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) allora diretto dal Generale Giovanni De Lorenzo poi, da Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, quello del “Piano Solo”, Anno 1964. Ma procediamo con calma a riordinare le carte di questa storiaccia, per capire e capirci qualcosa.

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Se andate a Piazza Bologna (Quartiere Nomentano-Italia, Secondo Municipio di Roma Capitale), vi posizionate davanti all’Ufficio Postale (edificio in stile razionalista italiano, progettato dagli Architetti Mario Dell’Arco e Gioacchino Luigi Mellucci e aperto al pubblico nel 1933) e volgete lo sguardo in direzione di Viale XXI Aprile, la prima traversa a sinistra che incontrate è Via Ernesto Monaci, una strada non eccessivamente larga che, se percorsa per intero, sbocca alle spalle dell’Ufficio Postale de quo ante.

Questa storia – che ha come centro lo Stabile sito al civico 21 di quella Via – comincia in quella strada la mattina dell’11 Settembre 1958, quando, alle 8,30 in punto, la domestica di casa Fenaroli suona ad una porta del primo piano del Palazzo, ma nessuno risponde. Dopo qualche secondo, la donna ci riprova, ma di nuovo non ottiene nessuna risposta. Allora si siede sulle scale e attende fino a quando non sopraggiunge la Signora Marisa, la portinaia dello Stabile, che le suggerisce di chiamare, col telefono a gettone (quelli che quando sentivi dire “Pronto”, se volevi parlare dovevi spingere il bottoncino e far cadere il gettone nell’apposito contenitore), il fratello della padrona di casa. Un paio d’ore dopo, con una scala di corda, lo Speleologo Marcello Chimenti, che era arrivato insieme al fratello della Martirano (la padrona di quella casa dalla porta chiusa), si cala dal terzo piano del Palazzo. Arrivato al primo piano, Chimenti entra dalla finestra aperta della chiostrina e, sul pavimento della cucina, trova Maria Martirano in Fenaroli, stesa a terra, senza vita.

La donna – stabilirà poi la Polizia Scientifica, arrivata un’ora dopo il ritrovamento del cadavere – era stata strangolata. Per terra in un’altra stanza della casa, il salotto, ci sono varie carte (tra cui quattordici polizze assicurative) e i gioielli della Martirano sono scomparsi (ma saranno poi ritrovati in un posto in cui erano stati cercati in precedenza, senza successo, ovvero la postazione dell’elettrotecnico milanese Raoul Ghiani, un altro personaggio di questa storiaccia). La porta di casa è chiusa con diverse mandate della serratura, così come sono  chiuse le finestre delle stanze, meno quella della chiostrina.

Giovanni Fenaroli

Al Commissario Ugo Macera – spigoloso ma efficiente Funzionario di Polizia e Capo della Squadra Mobile romana, incaricato delle indagini – il delitto appare subito intricato. Quando viene uccisa, la Martirano ha 49 anni e vive praticamente sola in quell’appartamento signorile. Macera scoprirà:  a) che negli anni ’30 – esattamente dal 1930 al 1934, come risultava dagli schedari della Buoncostume – la donna aveva esercitato la professione di prostituta nelle cosiddette “Case Chiuse”; b) che una delle sue ossessioni è la sicurezza, ossessione cresciuta dopo che, a detta di una vicina, il sette Settembre precedente qualcuno aveva tentato, senza successo, di entrare in casa; c) che il matrimonio della Martirano con il Geometra Giovanni Fenaroli mostra, da tempo, delle crepe vistose: il marito è, infatti, a Roma solo nei fine settimana, il resto della settimana lo passa a Milano, in Via del Gesù, nell’Ufficio della sua Ditta di costruzioni, la “Fenaroli Imprese”,  tra affari, debiti, cambiali, e amanti.

Per questo, i sospetti di Macera si appuntano, da subito, sul marito, di professione costruttore edile, che ha il suo Ufficio romano in Via Ravenna, una strada molto vicina a Via Ernesto Monaci. Fenaroli arriva a Roma in vagone letto da Milano, la sera del delitto ed è il ritratto di una persona sconvolta. Interrogato, per il giorno della morte della moglie ha un alibi: si trovava a Milano e aveva telefonato alla moglie, verso le 23,30, per salutarla. Lo confermerà il Ragionier Egidio Sacchi, collaboratore di Fenaroli nella “Fenaroli Imprese”.

Comunque, Macera – che aveva scartato il movente della rapina – dato che in casa c’era una somma consistente, circa un milione di Lire, completamente ignorata dall’assassino – aveva puntato sul marito della vittima. Infatti, come si fa nelle indagini di polizia, quando in una coppia a morire e la moglie, il primo sospettato è sempre il marito.  E aveva scandagliato a fondo la vita passata e presente di quella donna, senza trovare niente che potesse dargli da pensare, salvo una di quelle 14 Polizze, una Polizza Vita dal premio ingente, che però, per quel delitto, riportava in pole position il marito della donna.

Si trattava di una assicurazione sulla vita della Martirano con un “premio” di 150 milioni di Lire (Anno 1958) che aveva tra le clausole per la riscossione anche la morte dell’intestataria “a causa di una di rapina” (una clausola inusuale per una normale Polizza Vita, aveva pensato il Commissario Macera). Dunque, se la Martirano fosse morta, anche di morte violenta dovuta ad una rapina, il “premio” assicurativo sarebbe andato interamente al marito, visto che il beneficiario era diventato lui dopo una correzione di quel punto della Polizza (in cui prima figuravano come beneficiari gli eredi della Martirano); correzione che la Martirano stessa pareva avere firmato, salvo poi scoprire, da parte degli Investigatori, che quella firma era, in realtà, falsa.

Nota: Fenaroli confesserà, con naturalezza a Macera, di essere stato lui a firmare la Polizza al posto della moglie, come faceva di solito, anche per altre questioni simili. Va qui ricordato che la cosa poteva sembrare plausibile, essendo, in quell’anno, la riforma del Diritto di Famiglia ancora di là da venire (la Legge è datata 1975) e avendo dunque, al tempo, i mariti poteri praticamente illimitati sulle mogli, anche dal punto di vista della gestione delle finanze familiari, finanze che una moglie non poteva detenere senza il consenso del coniuge.
Dunque, la Martirano passava la sua giornata “reclusa” in quella casa, mentre fuori c’era la Roma di Via Veneto con la cosiddetta “dolce vita”. C’erano le serate e le nottate, che si tiravano lunghe e senza inibizioni; c’era lo spogliarello, in un Night Club di quella strada, dell’attricetta libanese, di origine armena, Aikè Nana e quell’anno, a San Remo, Domenico Modugno vinceva il Festival con la sua “Volare” (meglio “Nel Blu dipinto di Blu”).

Mentre tutto questo e altro ancora andava in scena in città, la Martirano se ne stava rintanata, praticamente da sola, in quella casa e mai e poi mai avrebbe fatto entrare uno sconosciuto, soprattutto dopo quel tentativo recente di qualcuno di forzare la porta d’ingresso dell’abitazione. Tutto normale, dunque, anche se quella sera del 10 Settembre, Maria Martirano in quella casa non era affatto sola. Lo provavano alcuni mozziconi di sigaretta tƒrovati in un posacenere in salotto, tra i quali ce n’era uno di una marca di sigarette diversa da quella fumata abitualmente dalla donna.

Ma il problema, per Macera, era il seguente: come aveva fatto l’assassino ad entrare, commettere il delitto e allontanarsi non visto, considerato che la porta di casa e le finestre delle stanze erano chiuse dall’interno? Questo, però, non era il solo “gnommero” (come avrebbe detto il Commissario Ingravallo del famoso Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda) di quella storiaccia. La domanda che Macera si era posto non era la sola da farsi per sbrogliare quella matassa che, più si procedeva nelle indagini e più si faceva intricata e per dirla fuori dai denti, puzzolente.

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Mentre si scervellava su quelle domande Macera aveva ordinato di scavare a fondo nella vita e negli affari di Fenaroli e scoprirà che la “Fenaroli Imprese” avrebbe dovuto essere acquistata da Italcasse, ma era sull’orlo della bancarotta; che Giovanni Fenaroli – Ingegnere o, a scelta, Commendatore, come amava farsi chiamare – era pieno di debiti e aveva le mani in pasta in diversi affari a dir poco strani che risultava gestisse con estrema disinvoltura, troppa per Macera.

Ma, mentre gli Investigatori indagavano sulla natura di quegli affari, sul capo di Fenaroli piovve un’altra tegola: Egidio Sacchi, il testimone della telefonata fatta da Fenaroli alla moglie da Milano la sera del 10 Settembre, aveva deciso di cambiare la sua versione e lo stava inguaiando.

Il Ragionier Egidio Sacchi, factotum e giuda

Egidio Sacchi, era il braccio destro di Fenaroli alla “Fenaroli Imprese” ed è lui che, in un primo tempo, conferma la telefonata di Fenaroli alla moglie e il suo contenuto. Si era trattato – aveva detto e confermato – solo di una telefonata di saluto. Ma Sacchi, in realtà – come scopriranno gli investigatori – era anche lui pieno di debiti che Fenaroli copriva e così l’”Ingegnere” lo teneva praticamente in pugno.

Ad un certo punto, però, la testimonianza di Sacchi cambia e il Ragioniere riferisce un’altra versione della telefonata di Fenaroli alla moglie. In realtà – dice Sacchi – con quella telefonata Fenaroli annunciava alla moglie che quella sera sarebbe andato da lei un certo Raoul (di cui lui si fidava molto) per portargli delle carte che la Tributaria non deve vedere e lei gli deve aprire.
Quella testimonianza modificata inguaia Fenaroli, ma pone a Macera un’altra domanda: chi è questo Raoul?

Carlo Inzolia

Si tratta di Raoul Ghiani, ragazzo di buona famiglia e bell’aspetto, milanese, di professione elettrotecnico presso la Ditta Vembi, macchine calcolatrici e microfilm. E’ un ragazzo rispettoso della Legge e può vantare un discreto successo con le donne, Fenaroli lo aveva conosciuto grazie all’amicizia di quest’ultimo con un certo Carlo Inzolia, fratello di Amalia Inzolia, una donna con la quale Fenaroli, dieci anni prima, aveva avuto una relazione; questa donna aveva una figlia, Donatella, che venne adottata da Fenaroli e che, quando nel 1957 rimase orfana, andò ad abitare con lo zio, Carlo Inzolia,

E’ Ghiani l’uomo che, la sera di quel 10 Settembre 1958, va a casa Fenaroli a Roma, e consegna alla Martirano la famosa documentazione che la Tributaria non deve vedere? Per gli Investigatori è cosa certa. Così, in questa storiaccia Ghiani diventerà il sicario, spedito dalla Martirano dal mandante, un Fenaroli ansioso di incassare quei 150 milioni di Lire, un toccasana per i suoi problemi economici.

Così – trovati il mandante, incastrato dal movente economico, e il killer, inguaiato da Fenaroli, i due – che continuano a professarci innocenti – vengono arrestati, rinviati a giudizio e condannati all’ergastolo, pena successivamente confermata, sia in Appello che in Cassazione; mentre Carlo Inzolia, accusato di essere l’intermediario del delitto, verrà assolto in Primo grado, “con formula dubitativa”, ma condannato a 13 anni di carcere in Appello, pena confermata in Cassazione.

Quel Processo divise gli italiani tra innocentisti e colpevolisti e scatenò l’opinione pubblica del Paese al pari del “Caso Montesi” di cinque anni prima e molte furono le celebrità e i personaggi noti del cinema che assistettero alle diverse udienze del Processo. Tra questi Vittorio De Sica, Anna Magnani e lo scrittore Aldo Palazzeschi.

Così, il giorno della Sentenza, il 12 Giugno 1961, davanti al Palazzo di Giustizia, situato al tempo nei pressi della romana Piazza Cavour, (per i romani “Er Palazzaccio”, oggi sede della Corte di Cassazione) ben 20mila persone – che avevano passato la notte in strada, davanti al Palazzaccio – attesero, all’alba (per la Storia erano le 5,32) la fine di quella storiaccia, sanzionata dalla Sentenza di condanna.

Nota: Giovanni Fenaroli morirà in carcere nel 1975. Raoul Ghiani, graziato da Pertini, nel 1984.

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Ma ecco che – passato il tempo del Processo – sul “Caso Fenaroli” piomba una rivelazione inquietante. A raccoglierla, il giornalista Antonio Padellaro, al tempo Vice direttore del Settimanale l’Espresso, il quale su quella storiaccia romana e su quella rivelazione clamorosa, scriverà poi un libro (“Non aprite agli assassini, il Caso Fenaroli e i Misteri Italiani”, (Baldini e Castoldi,1997) nel quale racconterà il “Caso Fenaroli” lavorando, in parallelo, sulla verità giudiziaria e sulla possibile  ”altra verità”, quella che gli aveva raccontato un particolare pensionato, incontrato, per caaso, in un piccolo paese del Trentino.

Racconta Padellaro che, arrivato appunto in Trentino per sue ricerche di lavoro, incontrerà un ex Agente del SIFAR, tale Enrico De Grossi, acerrimo nemico del Generale De Lorenzo, che lo aveva costretto a lasciare il SIFAR, il quale gli racconta che la storia di Via Monaci è un’altra, rispetto a quella che si raccontava e si conosceva. Infatti, Fenaroli e Ghiani erano innocenti, perché quel delitto era stata opera del SIFAR, che era stato richiesto di intervenire per “sistemare” una questione che era diventata spinosa per il potere democristiano.

Infatti – spiega De Grossi a Padellaro – Giovanni Fenaroli aveva avuto contatti diremo così particolari con un Sottosegretario di Stato democristiano, attraverso il quale era arrivato all’Italcasse, di Arcaini. Ma la cosa era assai più problematica. Infatti, “i rumori”, ovvero le voci sui protagonisti di quella storiaccia erano arrivate a sfiorare anche l’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, anch’egli democristiano, che – come è noto – si dimetterà dalla carica nel 1962, per motivi politici che non riguardavano però il “Caso Fenaroli”.

Fenaroli, nell’Ufficio di quel Sottosegretario aveva scoperto le prove di una tangente passata per l’Italcasse di Arcaini aveva sottratto la documentazione che la provava per poi, forte di quelle carte, tentare un primo ricatto, riuscito, che pare gli avesse fruttato cinque Milioni di lire. Non contento, stava preparando la seconda puntata di quel gioco sporco e pericoloso, ma nel frattempo erano scattate le contromosse dei ricattati e si preparava a scendere in campo “niente popò di meno che” (come diceva Mario Riva, Presentatore del “Musichiere”, seguitissima trasmissione TV di quegli anni)  il SIFAR.

Intanto, per mettersi al sicuro da eventuali accidenti, il costruttore si che aveva chiuso in una busta gialla, tipo ministeriale, i documenti sottratti nell’Ufficio del Sottosegretario, e conservata quella busta gialla, tipo ministeriale, a Via Monaci,

Nota: diversi anni dopo i fatti, a De Grossi che lo incontrerà, in carcere, Fenaroli pare abbia detto: “Basta, fermiamoci qui e lasciamo stare l’Italcasse, ne va della mia vita”.

Anche Maria Martirano – che aveva scoperto i movimenti del marito e aveva pensato di farci un po’ di soldi – ricattava quel politico e quelli di Italcasse e così il Servizio – dirà ancora De Grossi a Padellaro – era intervenuto – con uno, ma forse anche con due killer – eliminando la Martirano e “incastrando” il marito per il suo omicidio. Così, per così dire, “rimosso il problema” e recuperata quella pericolosa busta gialla, tipo ministeriale, (che infatti non era stata trovata in casa Fenaroli, al momento della perquisizione degli Investigatori), tutto era tornato, diciamo così, normale nella vita della ancora giovane Repubblica Italiana.

E in quell’ingranaggio, a detta dI De Grossi, messo in moto da professionisti, era rimasto impigliato anche Raoul Ghiani, ché – ad esempio – mai chi compie un omicidio e ruba dei gioielli in casa della vittima, li nasconde poi nel suo armadietto del posto di lavoro dove, sicuramente, gli investigatori sarebbero andati a cercarli. Come in effetti accadde con i gioielli della Martirano che non erano stati trovati in Via Ernesto Monaci e nemmeno nella prima perquisizione sul posto di lavoro milanese di Ghiani, ma vennero trovati, chiusi in un barattolo, durante una seconda perquisizione, effettuata qualche  tempo dopo, in quell’armadietto dove prima non c’erano.

Così con questa rivelazione che – se vera – svela il primo caso di commistione tra politica e Servizi, nell’Italia repubblicana e democratica – si chiude questa storiaccia in salsa romana.

Nota: va ricordato che gli Agenti della Polizia Scientifica, durante il loro sopralluogo in casa Fenaroli tra le tante impronte rilevate, in cucina e nel salotto dell’abitazione, non ne avevano trovata nessuna – né parziale, né totale – che appartenesse a Raoul Ghiani. E nemmeno il capello trovato in uno dei due lavelli della cucina (che non era della vittima, né del marito) apparteneva all’elettrotecnico milanese che, come Giovanni Fenaroli, si era sempre dichiarato innocente di quel delitto, versione che i due sosterranno fino al giorno della loro morte.
Il delitto di Via Ernesto Monaci, ovvero il ”Caso Fenaroli” in TV e al Cinema

Oltre ai due libri che ho citato, il “Caso Fenaroli” – che è stato realtà in tutti i suoi momenti, ma sembrava costruito come fosse la sceneggiatura di un thriller da Oscar – ha dato origine ad un paio di Sceneggiati RAI. Il primo – di Daniele D’Anza e Biagio Proietti, andato in onda nel Giugno del 1977 – si intitolava “L’ultimo Aereo per Venezia” e si ispirava, molto liberamente, alla storia del delitto romano di Via Ernesto Monaci.

Il secondo, un film per la TV, più aderente alla realtà di quella storiaccia era intitolato “Il Caso Fenaroli”. Scritto da Fulvio Ottaviano, con la supervisione di Vincenzo Cerami, ricostruiva con accuratezza, quella storia e i suoi sviluppi investigativi e venne mandato in onda nell’Ottobre del 1996, per la regia di Giampaolo Tescari.

Sul “Caso Fenaroli” due sono ancora i film che vanno citati.

Il primo – liberamente (e comicamente) ispirato a quel Caso – s’intitola “Il Vedovo”, con Alberto Sordi e Franca Valeri, diretto nel 1959 dal regista Dino Risi.

Il secondo s’intitola “I Mostri” (regia sempre di Dino Risi, Anno d’uscita 1963) e l’Episodio intitolato “Il Testimone Volontario” è ispirato alla vicenda processuale di Raoul Ghiani.

Ugo Fanti, Presidente della Sezione Anpi di Roma Aurelio-Cavalleggeri “Galliano Tabarini”


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