

25 Marzo 2025: tre operai (anzi, quasi quattro) morti in un solo giorno
“lavorare in sicurezza è come respirare: se non lo fai muori” (anonimo)
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“Oddio il mio grembiule / guarda come mi torna indietro / era una bobina di anima / ogni giorno un filo d’amore / ogni giorno quelle ore che mi massacravano / io ogni giorno non ridevo mai / e la sera tornavo così stanca / e vedevo mio marito che mi guardava / e io mi giravo dall’altra parte / ma il mio grembiule era pieno di rose / erano tutti i baci che avrei dato a lui / invece di quello sporco lavoro / non hanno voluto pagarmi / né il grembiule e neanche la vita / perché ero una donna che non poteva sognare / ero una volgare operaia / che in un giorno qualsiasi / e chissà perché / aveva perso di vista il suo grembiule / per pensare soltanto a lui.” (Alda Merini, Poetessa, “Il Grembiule”)
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«Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe. Noi eravamo sotto, nel rifugio, durante un coprifuoco; siamo tornati su e non c’era più niente, solo macerie. Ho aiutato mia madre a partorire mio fratello: avevo 12 anni.
Un bel tradimento da parte dell’Inghilterra, perché noi eravamo tutti a tavola, chi faceva i compiti, chi mangiava, arrivano questi bombardieri, con il fiato pesante, e tutt’a un tratto, boom, la gente è impazzita. Abbiamo perso tutto. Siamo scappati sul primo carro bestiame che abbiamo trovato.Tutti ammassati. Siamo approdati a Vercelli. Ci siamo buttati nelle risaie perché le bombe non scoppiano nell’acqua, ce ne siamo stati a mollo finché non sono finiti i bombardamenti.
Siamo rimasti lì soli, io, la mia mamma e il piccolino appena nato. Mio padre e mia sorella erano rimasti in giro a Milano a cercare gli altri: eravamo tutti impazziti. Ho fatto l’ostetrica per forza portando alla luce mio fratello, ce l’ho fatta: oggi ha sessant’anni e sta benissimo. La mamma invece ha avuto un’emorragia, hanno dovuto infagottarla insieme al piccolo e portarseli dietro così, con lei che urlava come una matta.
A Vercelli ci ha ospitato una zia che aveva un altro zio contadino, ci ha accampati come meglio poteva in un cascinale. Sembrava la Madonna mia madre, faceva un freddo boia, era una specie di stalla, ci siamo rimasti tre anni. Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo invece a mondare il riso, a cercare le uova per quel bambino piccolino: badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la guerra.
Stavo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio, ero una brava ragazza io. Io sono molto cattolica, la mia parrocchia a Milano era San Vincenzo in Prato. Mi sento cattolica e profondamente moralista, nel senso che sono una persona seria allevata da genitori serissimi, pesanti e pedanti in fatto di morale.
Non lo so se credo in Dio, credo in qualcosa che… credo in un Dio crudele che mi ha creato, non è essere cattolici questo? Perché, Dio non è così? Tutti abbiamo un Dio, un idoletto, ma proprio il Dio specifico che ha creato montagne, fiumi e foreste lo si immagina solo… con la barba, vecchio, un po’ cattivo, un Dio crudele che ha creato persone deformi, senza fortuna. Credo nella crudeltà di Dio. ù
Non penso siano idee blasfeme, la Chiesa non mi ha mai condannata. Anzi, il mio “Magnificat” è stato esaltato, perché ho presentato una Madonna semplice, come è davvero lei davanti a questo stupore dell’Annunciazione, che non accetta fino in fondo perché lei ha San Giuseppe. Io pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva, però non ci vado più dai tempi del manicomio.
Ho trovato una tale falsità nella Chiesa allora, in manicomio vedevo le ragazze che venivano stuprate e dicevano di loro che erano matte. Stuprate anche dai preti, allora mi sono incazzata davvero. L’ho visto accadere ad altri, non è una mia esperienza. La Chiesa è dura con le donne, da sempre. Però oggi come sono magre e secchette le donne, prima erano belle adipose.
Sono tornata a Milano quando è finita la guerra, siamo tornati a piedi da Vercelli, solo con un fagotto, poveri in canna, e ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o trovato vuoto, di uno straccivendolo. E ci stavamo in cinque. Abbiamo ripescato anche mia sorella che era partita con i fascisti, con i tedeschi, aveva imparato, si metteva in strada, tirava su le gonne, i tedeschi andavano in visibilio e le regalavano il pane, si sfamava così, si alzava solo la gonna, era bellissima.
In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1983, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista.
Un bell’uomo. Ho avuto quattro figlie da lui. Andavamo a mangiare la minestra da mia madre perché lui non aveva ancora un lavoro. Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio facevamo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta. Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima figlia, Simona, e prima ancora era arrivata Barbara.»
(Fonte: https://www.aldamerini.it/?page_id=8)
“La guerra del lavoro insicuro continua a mietere vittime. In poche ore i nomi di Daniel Tafa, 22 anni, Nicola Sicignano, 50 anni, e Umberto Rosito, 38 anni, si sono aggiunti a una lista che si allunga di giorno in giorno e che scuote le coscienze, senza però che, visti i numeri, nulla cambi. “E’ una strage infinita, sono tragedie che affondano le loro cause nel risparmio ad ogni costo, nella fretta, nella mancanza di investimenti e di controlli – annota la segretaria confederale della Cgil, Francesca Re David – e che non possono essere fermate con interventi più o meno burocratici”.
Il primo a perdere la vita è stato Nicola Sicignano, sposato con due figli, operaio di una ditta di smaltimento rifiuti di Sant’Antonio Abate nel napoletano, rimasto incastrato con il braccio e la testa nel nastro trasportatore della linea di lavoro. Sicignano era nato a Vico Equense e risiedeva a Gragnano, era addetto diretto della Sb Ecology, azienda della Balestrieri Holding, già nota alle cronache perché nel 2019 e nel 2020 si svilupparono due grossi incendi nella sede della ditta.
Aveva soltanto 22 anni invece Daniel Tafa, ucciso in un incidente che si è verificato durante il suo turno di lavoro nell’azienda Stm a Maniago, in provincia di Pordenone. Il ragazzo, nato a San Vito al Tagliamento e residente a Vajont, è morto a causa dell’esplosione di uno stampo d’acciaio, trafitto da una scheggia incandescente che lo ha colpito alla schiena mentre era impegnato su un’altra lavorazione. Anche nel suo caso, come in quello di Sicignano, le indagini della magistratura sono state affidate ai carabinieri.
La terza vittima, Umberto Rosito, originario di Corato, sposato a padre di una bambina di tre anni, aveva appena iniziato a predisporre la segnaletica per un cantiere stradale gestito da una impresa di Orvieto e relativo alle manutenzioni del tratto di autostrada A1 poco oltre lo svincolo della città umbra in direzione Firenze, quando è stato travolto da un autoarticolato ed è morto all’istante.
All’elenco delle vittime va aggiunto un quarto operaio rimasto gravemente ferito mentre stava lavorando nella diga di Cumbidanovu a Orgosolo, nel nuorese, L’uomo è caduto da un’altezza di circa quattro metri mentre stava lavorando imbragato. Soccorso da un’ambulanza del 118, è stato portato all’ospedale di Nuoro in codice rosso per un trauma al rachide, e sottoposto ad ulteriori accertamenti.”
Così Riccardo Chiari su Il Manifesto del 26 Marzo 2025 ha iniziato il pezzo nel quale raccontava della strage sul lavoro avvenuto quel giorno: in un solo giorno quattro operai morti.
Secondo quanto emerge dai dati ufficiali dell’INAIL, nel 2024 gli incidenti mortali sul lavoro sono aumentati di quasi il 5% rispetto all’anno prima arrivando a 1.090 contro i 1.041 del 2023. Si torna al livello del 2022, che aveva fatto segnare una riduzione dopo il biennio segnato dai contagi Covid sui luoghi di lavoro. ù
E salgono, da 12 a 13, le vittime tra gli studenti per infortuni successi a scuola, nei laboratori o in percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento lavorativo (ex alternanza scuola-lavoro).
Le denunce di infortunio mortale in occasione di lavoro, al netto degli studenti e degli incidenti durante il tragitto, sono state 797, sette in più rispetto alle 790 registrate nel 2023, 10 in più rispetto al 2022 e 18 in più sul 2019, ma 176 in meno sul 2021 e 256 in meno sul 2020.
Rispetto agli occupati ISTAT nei vari periodi, l’incidenza cala leggermente passando dai 3,38 decessi denunciati ogni 100mila occupati ISTATdel 2019 ai 3,31 del 2024 (-2,1%). Ad aumentare sono soprattutto le morti nell’industria e nei servizi, a 686 dalle 669 del 2023. In calo l’agricoltura (da 107 a 102) e il conto Stato e dipendenti (da 14 a 9).
Tra i settori con più decessi avvenuti in occasione di lavoro ci sono ancora le costruzioni con 156 casi (contro i 150 del 2023), il trasporto e magazzinaggio con 111 casi (109 nel 2023), il comparto manifatturiero con 101 casi in entrambi gli anni, il commercio con 58 (64 nel 2023) e il noleggio e servizi di supporto alle imprese con 38 (39 nel 2023).
Secondo la CGIL: La vera causa è il lavoro svalorizzato. “Queste tragedie, che affondano le loro cause nel risparmio ad ogni costo, nella fretta, nella mancanza di investimenti e di controlli, non possono essere fermate con interventi più o meno burocratici”, ha dichiarato la Segretaria Confederale della CGIL, Francesca Re David. Per la dirigente sindacale “la svalorizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori è la vera responsabile di queste morti e nessun appello generico alla cultura della sicurezza può essere efficace senza una cultura della centralità della persona sul profitto”. Serve, ha aggiunto, un “cambio di paradigma” altrimenti “la strage non si fermerà”: “Con i referendum sul lavoro dell’8 e del 9 giugno, promossi dalla CGIL vogliamo invertire questa logica intervenendo sulle responsabilità nella catena degli appalti e sulla precarietà”.
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Dunque, la strage sul lavoro continua e nonostante ogni volta che qualche lavoratore o lavoratrice muore, i Quotidiani si riempiano di pagine allarmate sulle troppe “morti bianche” (così le chiamano, come se la morte avesse un colore diverso a seconda del perché si muore) e sulle regole della sicurezza che ci sono (e pure tante), ma non vengono quasi mai osservate perché rallentano il lavoro e non permettono profitti diremmo così “veloci” e ripetuti, il contatore dei morti sul lavoro corre e non ha – pare – nessuna intenzione di ridurre la sua velocità e meno che mai di fermarsi.
Chiudo questa Noia con le righe con le quali il giornalista Riccardo Chiari chiude il suo pezzo, pubblicato sul Manifesto il 26 Marzo scorso, che ho citato sopra:
“Nel mentre il procuratore pratese Tescaroli, con una lettera inviata al ministri del Lavoro e dell’Interno, dà conto delle indagini sul disastro al deposito Eni di Calenzano (cinque vittime), segnalando fra l’altro di ripensare le modalità di compilazione del Duvri (il documento di valutazione dei rischi interferenti), perché dalle indagini è emerso che a contribuire al disastro è stato anche l’aver svolto i lavori di manutenzione in contemporanea con le operazioni di rifornimento delle autobotti. Una pratica che secondo la procura è comune in tutti i depositi Eni.”.
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