“Parthenope” ovvero dell’inesauribile allegoria di una meravigliosa decrepita città
L’ultimo film di Paolo Sorrentino: una balbettante dichiarazione di odio-amore nei confronti di NapoliL’allegoria, secondo il “Maestro di color che sanno” (Aristotele), non è altro che “una metafora continuata” oppure, meglio ancora, “una foresta di simboli”, un insieme di elementi – espressi mediante la parola orale o scritta, la pittura, o le immagini in movimento (cinema) – ciascuno dei quali rimanda o rinvia a qualcos’altro.
Il rimando può essere palese oppure ermetico, ma, in ogni caso, il lettore-fruitore-spettatore deve avere la consapevolezza che, messo di fronte ad un’opera dell’ingegno, niente di ciò che percepisce è effettivamente ciò che è.
Paolo Sorrentino, uno dei nostri migliori e più prolifici registi (nonché soggettista e sceneggiatore), sebbene dotato di una spiccata e acuta visione dei fenomeni sociali e culturali aventi dimensioni nazionali e internazionali (e lo ha efficacemente dimostrato in numerose pellicole da lui firmate), rimane tuttavia con i piedi ben piantati nella sua terra d’origine: Napoli, una città meravigliosa, che custodisce e continuamente alimenta e rinnova un patrimonio artistico ineguagliabile; una città incantevole ma, nel contempo, affetta da mille problemi sociali, da stridenti ineguaglianze, dalla compresenza e mescolanza di splendori e di miserie, di illimitati saperi scientifici e di obbrobriose e medievali forme di superstizione che non finiscono di inorridire tutti coloro che, con orgoglio, dichiarano la loro fiducia nei “lumi” della ragione; una città “eccessiva”, tanto nel bene quanto nel male.
Anche in questo suo ultimo lavoro Paolo Sorrentino si conferma (e ci conferma) – e fin dal titolo Parthenope, l’antichissimo e originario nome della città – il profondissimo legame e attaccamento alle sue radici. La storia, in effetti, della protagonista, la bellissima Parthenope (interpretata da una Celeste Dalla Porta indubbiamente avvenentissima, ma ancora alquanto acerba sotto il profilo professionale), nata nelle acque marine del golfo come la mitica sirena della quale porta il nome, si intreccia con la storia della città “dai mille colori” (Pino Daniele) che le ha dato i natali, e ciò in maniera del tutto naturale e priva di qualsiasi tentativo di depistaggio; in altri termini, la vicenda biografica di questa ragazza della buona borghesia che intraprende, dopo molti tentennamenti, la carriera di ricercatrice e docente di antropologia culturale.
Si dipana, a volte disordinatamente, in episodi nei quali appaiono e agiscono personaggi che rinviano, direttamente o indirettamente, alla storia recente e meno recente, della città: dal suo padrino di battesimo (il famoso comandante Achille Lauro, sì, proprio lui, l’unico il cui significato non è né metaforico, né allegorico, né tantomeno morale, ma semplicemente “letterale”), al boss della camorra Ciro Criscuolo (vale a dire Roberto Cutolo, leader della NCO), allo stesso fratello della ragazza (Raimondo Di Sangro, stesso nome e cognome del celeberrimo illuminista duca di Sansevero, colui che raccolse nella cappella di famiglia i meravigliosi capolavori della scultura settecentesca, a partire dal Cristo velato), alla diva internazionale Greta Cool (una Sophia Loren, riconoscibilissima sebbene sapientemente truccata e invecchiata, interpretata da una splendida Luisa Ranieri in un cammeo di altissimo livello “attoriale”), all’oscena e perfidamente squallida figura del cardinale Tesorone (cardinali così farabutti e truffatori, nella storia di Napoli, se ne trovano molti, anche in tempi recentissimi), fino ad arrivare al professore di antropologia Devoto Marotta, al quale dà la sua voce e tutta la struggente e disillusa malinconia un ottimo Silvio Orlando.
Il professor Marotta (il cognome non mente) altro non è che un “devoto” (appunto) omaggio ad un personaggio carismatico della grande cultura partenopea: l’avvocato Gerardo Marotta, fondatore e finanziatore di quella straordinaria Istituzione di alta cultura che è stato, per decenni, l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, la cui sede e i cui corsi, in via Montedidio nel palazzo Serra di Cassano, ho avuto più volte il piacere di frequentare. In quella sede, nel 1988, nelle pause di un seminario tenuto dal celebre filosofo Hans Georg Gadamer, discepolo di Heidegger e già quasi centenario, sulla Repubblica di Platone, ebbi anche il grande onore di conoscere l’avvocato Gerardo Marotta e di scambiare alcune opinioni sulla funzione della filosofia nella scuola italiana.
Ma, per ritornare al film di Sorrentino, mi sembra che il senso della storia narrata risieda nelle relazioni o, per meglio dire, nelle “concessioni” del proprio corpo che Parthenope (metafora della città di Napoli) decide spontaneamente a favore di personaggi che altro non sono che simboli, metafore, di “potenze” più o meno oscure.
Il suo concedersi a Ciro Criscuolo (Roberto Cutolo) è l’allegoria del dominio della camorra sulla città, soprattutto sui ceti suoi più poveri e diseredati; analogamente il suo “darsi” al disgustoso cardinale Tesorone (un nome molto significativo, ma fin troppo facile da decifrare), all’interno del Duomo e con il corpo ricoperto dai gioielli del tesoro (un “tesorone”, infatti) di San Gennaro, altro non è che l’allegoria del possesso e del millenario dominio sulla città da parte di un cattolicesimo per niente spirituale, anzi eccessivamente carnale e “sanguigno”, un cattolicesimo la cui insostituibile “cifra” è costituita dal cosiddetto “miracolo” della periodica liquefazione del sangue del santo patrono. E, tuttavia, nonostante la tirannia esercitata su Parthenope (intesa come città), da tempo immemorabile, dalla “santa alleanza” tra Chiesa e criminalità organizzata, il vento dello spirito (cioè della cultura filosofica e scientifica) non smette di soffiare anche tra i suoi vicoli e le sue piazze e le sue colline e le sue marine e all’interno dei suoi “vasci”.
In quest’ottica, non stupisce che la tesi di laurea della studentessa Parthenope abbia, come argomento, l’antropologia del miracolo di San Gennaro e dei suoi effetti sui “ceti subalterni” napoletani. Né stupisce che l’unico personaggio al quale la studentessa Parthenope non si concede sia l’imprenditore del Nord (molto somigliante all’avvocato Giovanni Agnelli all’età di quarant’anni), simbolo di un super-capitalismo globalizzato che ha da tempo reciso qualsiasi tipo di legame con le vecchie e superate e oscurantistiche istituzioni, residui (si fa per dire) dell’età medievale.
Ma, se quello fin qui esposto rappresenta il contenuto, il nocciolo, la sostanza dell’opera sorrentiniana, e su questo contenuto ogni interpretazione e discussione è aperta, sugli aspetti estetici del film (regia, sceneggiatura, dialoghi, fotografia, scenografia, colonna sonora, ecc.) mi sembra di poter dire, con una certa approssimazione, che i risultati non siano all’altezza della media della filmografia di Paolo Sorrentino, meno che meno se confrontiamo Parthenope con quello che, a mio avviso, rappresenta e rimane il capolavoro del regista napoletano, vale a dire Le conseguenze dell’amore (2004), un film perfetto sotto ogni punto di vista.
Ciò che nuoce a Parthenope è, a mio avviso, l’eccesso (l’amico Roberto Chiesi ha parlato di manierismo alla seconda potenza, un manierismo che ha come modello il consueto manierismo sorrentiniano); l’eccesso nel dipingere i differenti e contrastanti ambienti sociali, gli aspetti urbanistici, i celebri paesaggi-cartoline partenopei; l’eccesso nel rappresentare i sentimenti e le emozioni dei singoli personaggi; ma anche (e qui ha pienamente ragione Roberto Chiesi) la povertà e la banalità dei dialoghi che, a volte, rammentano quelli degli antichi fotoromanzi (non a caso, in una brevissima inquadratura, la cinepresa si sofferma sulla copertina del rotocalco, un tempo diffusissimo, Grand’Hotel).
Un film, in ogni caso, da vedere, per molti aspetti godibile, ma incapace di provocare commozione, e tanto meno entusiasmo. Prendiamolo come fosse una balbettante (senza alcuna irrisione) dichiarazione di odio-amore da parte di Sorrentino verso la sua città.
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