

Il Parkinson mi ha preso quattro anni fa. Dovrei dire cinque, dall’inizio dei sintomi, ma fu la mattina del mio cinquantacinquesimo compleanno che un dottore mi disse tranquillo: «lei ha il Parkinson». Poi continuò a parlare, ma io non udii più nulla e, dopo non so quanto, chiesi di sdraiarmi sul lettino dell’ambulatorio. Un panno nero, sudicio e spesso mi avvolse il cervello.
Uscii senza pensare e calcolai la probabilità di morire sul colpo buttandomi dai miseri cinque piani della palazzina; optai per lasciarmi investire, ma non volevo morire con questo peso sulla coscienza, di aver coinvolto un altro nel mio dolore. Tornai a casa dove era pronta la torta con le candeline.
La Bestia – lo chiamo così perché riguarda il mio corpo animale ed è al di fuori del mio controllo – è un semplice, burocratico elenco di torture sempre più sofisticate di cui hai la prenotazione: i dolori e i tremori del corpo non potranno che peggiorare; verranno la psiche depressa, gli incubi e le allucinazioni; e già da subito, per chi crede, c’è l’angoscia più atroce: il tuo rapporto con Dio.
Va bene malato, va bene squilibrato, ma lentamente sottrarre a un sacerdote il poter scrivere da solo e il poter parlare senza impacci, oltre al rallentarsi del pensiero e all’affievolirsi degli interessi, può solo voler dire che Dio non ti ha gradito, che ti toglie sacerdozio e vesti sacre… «chissà se riuscirò più a celebrare la Messa!» Il timore tremendo di essere stato diseredato da tuo Padre, di aver disgustato l’Amore della tua vita, di esserti reso indegno della sua amicizia…
Il pensiero è volato ad Abramo, a quell’episodio tante volte letto e studiato, ma ora, d’un tratto, eco di un vissuto personale: quando Dio chiede il sacrificio del figlio, quel dono che aveva a lungo atteso, quel figlio che era la vocazione, la sua dignità e il suo futuro, Abramo non si sottrae, ma tace.
Se Dio si aspettasse una risposta, gli chiederei di formulare una domanda. Non mi ha chiesto nulla. Lo so, lo so che proprio attraverso questa obbedienza Abramo sarà all’origine di ogni benedizione per il genere umano, ma tra un giorno da leone o cento da pecora, io come Troisi avrei scelto cinquanta giorni da orsacchiotto.
Sono stato abbastanza bene finora. È fondamentale l’aiuto delle persone. Chi ha il Parkinson non deve mai essere lasciato solo; va bene la privacy, ma vivere da solo, no. Le bestie si controllano in due.
Ho chiesto spesso preghiere a persone buone e tanti so che pregano per me. È bello, soprattutto quando è immeritato.
Quando sei buono e preghi di cuore per la salute fisica o spirituale di qualcuno, non importa la bontà dell’altro, importa solo quanta ricchezza di amore ti ritrovi nel cuore: questo mi conforta, perché le preghiere che ricevo non dipendono dalla mia bontà, ma da quella di chi prega.
Chi ha il Parkinson deve fare molto sport. Sono dimagrito facendolo e ho messo su muscoli che non sapevo di avere; se fossi più giovane avrei avuto qualche chance in più con le ragazze, chissà. Meglio così però, meglio aver allenato di più la mente a suo tempo, non tornerei indietro su questo.
Chi ha la bestia deve riprendere subito le sue personali fonti di gioia: per me la musica, i libri e la natura. Purtroppo bicicletta e arrampicate in montagna possono darmi piacere solo al momento dei ricordi. Mi sono messo molte volte sul letto in posizione fetale al pomeriggio, aspettando che la tristezza mi invadesse per la mia inevitabile dose giornaliera di autocommiserazione, ma la finestra s’affaccia sull’oratorio e proprio sotto di essa si radunano spesso i bambini più piccoli (5-6 anni) a discutere e a raccontarsi i segreti: è un unguento per la mia anima, un olio di gioia e commozione; schizzo dal letto e scendo veloce – si fa per dire – per stare in mezzo a loro.
Non leggo libri o articoli sul Parkinson, ancora non ce la faccio. Mi capita tuttavia di incontrare spesso i malati con la bestia, o perché fanno un giro del parco del quartiere insieme alla badante, o perché mi chiedono di benedire la loro casa. Non amo incontrarli. Voi vorreste vedervi in anticipo vecchi e malati? conoscere come sarete tra cinque, dieci, quindici anni?
Per la stessa ragione non mi dilungo in descrizioni, quando mi chiedono della mia salute: per me significa pensarci, e il pensarci trasforma il dolore in sofferenza e dopo un po’ questa si trasforma in angoscia, e non si dorme. Non pensi alla bestia, è solo che non dormi. Mi fa piacere che si ricordino della mia situazione, che preghino per me, ma è solo questo ciò che desidero.
Ogni giorno un santo sempliciotto e allegro mi fa uno squillo sul cellulare e significa che sta facendo un’Ave Maria per me. Non sempre lo noto subito, ma mi consola sempre: non sono solo.
Non vedo trasmissioni o film sul Parkinson o con personaggi che lo abbiano. Non amo le barzellette sulla bestia. Ancora non ce la faccio a scherzare sul mio carnefice, ancora non ci trovo elementi buffi, ed è strano per me che prediligo sopra ogni cosa l’umorismo.
Gli ebrei raccontano barzellette sulla Shoah, ma loro sono degli habitué della sofferenza, quasi non esistono se non quando vengono perseguitati. Anch’io dovrei essere così, in fondo il mio è un Dio crocifisso, e per di più sono un consacrato in un Istituto che si chiama “Servi della Sofferenza”; la sofferenza dovrebbe essere la mia identità.
Devo dire che lo sta diventando, ma una cosa è avere un’identità, un’altra è trovarcisi a proprio agio. Non mi ci ritrovo. Io sono sempre andato veloce: veloce nel camminare, veloce nel parlare, veloce nel pensare e nel leggere, veloce nel mangiare. E ora tutto si rallenta: accidenti!
È davvero la pena del contrappasso: potrei dire di essere abbastanza intelligente e colto, ma presto tutto questo finirà; ho sempre scritto e parlato con facilità anche di cose difficili, ma anche questo mi verrà tolto; ho amato il mio corpo, il cibo, ciò che è manifestazione di affetto, ma già comincia lo sconforto e mi guardo allo specchio con una lacrima agli occhi; ho avuto tantissimi interessi e un umorismo costante, ma la mancanza di alcuni neurotrasmettitori cancellerà il mio carattere.
Già sento nostalgia di me e scrivo di più per lasciar traccia di ciò che sono stato, raccolgo ricordi e filmati, foto, documenti che attestino ciò su cui ho riflettuto negli anni e le conclusioni di una vita di pensieri e fantasie vissuta a gran velocità.
Vi rivelo un segreto: nel dormiveglia ho inventato una storia alternativa della mia vita, alquanto interessante e piena di avvenimenti. La fantasia non mi è mai mancata e mi sono giornalmente divertito col gioco del “cosa sarebbe successo se…”, sia sulla mia vita sia sulla storia del mondo. Tutto questo sarà materiale per i miei futuri incubi? Quando sarà il momento ve lo farò sapere.
Quasi tutti i giorni mi si inumidiscono gli occhi pensando alle persone care che moriranno prima di me. Qualche volta è qualcosa di più dell’umidità. Mi sentirò perso. Come è difficile trovare qualcuno a cui dire, semplicemente dire, come ti senti questa mattina. A nessuno importa con questa assiduità.
Quando però una malattia è progressiva, ogni giorno sei di vedetta per vedere se la bestia è cresciuta o sta ricevendo rinforzi, e lo vuoi raccontare: «com’è passata la notte, sentinella?»; «sono le cinque e tutto va bene». Già, come diceva il tizio che precipitava dall’ultimo piano di un grattacielo, oltrepassando ogni piano: «fin qui tutto bene».
Poi vi sono le cose strane. Le medicine ti possono far venire pensieri sessuali, impulsi di shopping compulsivo, fissazioni di ogni tipo, secondo le tue inclinazioni: a volte mi si fissano certi oggetti o cose da fare che non riesco a cancellare, e poi vanno via senza che me ne accorga. Sento come se fosse impossibile fare a meno di quell’oggetto, di quella persona, di quell’iniziativa: ho imparato ad aspettare.
È stupefacente la mente umana, non immaginavo il suo potere, quanto domini sulla nostra anima: chissà quante cose capiremo di noi stessi e di ciò che abbiamo vissuto quando, passati a miglior vita, non saranno più i nostri neurotrasmettitori a dipingerci la realtà.
Si impara tanta compassione e misericordia a pensarci: quanto dipende dai nostri ormoni e quanto da come riusciamo a gestire ciò che il cervello ci mette davanti?
Sono pensieri sparsi, che ho scritto solo perché finalmente sono riuscito a scriverli. Non hanno altro scopo. Rileggendo, mi suona tutto strano, è la prima volta che leggo qualcosa scritto da un paziente.
Se incontrate qualcuno con la bestia, non giudicatelo male; Dio solo sa quanto di ciò che dice viene dall’anima e quanto da uno spruzzo infinitesimale tra due sinapsi del suo cervello. Tutto qui.
don Domenico Vitulli
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Don, ho letto…….non riesco a scrivere nulla.
Attilio Migliorato
Grazie per il coraggio della fede che testimoni.
Non ho il dono della fede, ma sono rimasto senza parole dopo quanto ho letto. Mi pongo solo una domanda : c’è un perché?
Grazie. La sua domanda mi ha fatto scrivere il secondo articolo. Sono comunque sempre a disposizione per una chiacchierata a quattr’occhi
https://abitarearoma.it/la-sofferenza-non-bussa-in-casa-sua/
No, don Domenico, lei non rimarrà solo: la famiglia parrocchiale di S. Tommaso d’ Aquino è intorno a lei per accompagnarla, sostenerla e consolarla. Chi di noi ha vissuto l’ angoscia e l’ isolamento della pandemia non può dimenticare quando lei percorreva in solitudine le strade del nostro comprensorio, sostenendo l’Altissimo e diffondendo speranza, fiducia : … con l’aiuto di Dio, ce l’avremmo fatta anche a superare quel difficile momento … !
Sempre sorridente, scherzoso, cordiale, dinamico, ispiratore di iniziative di aggregazione e di promozione della formazione all’ interno della comunità, del suo ministero ha fatto il momento della condivisione della fede, dell’ empatia, della difesa dei più deboli.
Grazie, don Domenico! Noi le siamo vicini.
Ho letto con commozione questa testimonianza, dell’umana sofferenza e preoccupazione del domani, della grande fede e fiducia in chi ci circonda e quanto l’amore può.
Ogni bene Don Domenico
Grazie per la sua testimonianza vera e autentica. Sappia che per quello che ha donato non sarà mai lasciato solo. Per quanto mi riguarda come operatrice socio sanitaria e come persona sola al mondo che la stima io ci sono e nelle mie possibilità può contare su di me.